Gianluca Castagna | Per quanto si abusi delle trasposizioni cinematografiche tratte dai grandi romanzi dell’Ottocento, trovare dei film interessanti, o addirittura riusciti, non è semplice. Soprattutto quando i registi, spaventati a morte dall’opera d’arte, scelgono deliberatamente di non affrontare la quantità di argomenti, psicologie e profondità che quei testi custodiscono. La sfida principale per Joe Wright di fronte al capolavoro di Lev Tolstoj “Anna Karenina”, è stata quella di individuare un approccio originale e vincente sul piano cinematografico. Trascinare il pubblico in questa storia di passione e fedeltà, tradimenti e convenzioni sociali, schivando volontariamente non solo la complessità e la grandezza titanica del gioiello letterario, ma soprattutto la trappola del filmone polveroso proveniente da tempi e luoghi troppo remoti per intercettare il gusto contemporaneo.
La vicenda è nota. In caso contrario, male non farebbe tuffarsi nelle pagine del romanzo “perfetto” di Tolstoj. Perfetto perché lontano dalle lungaggini talvolta estenuanti di “Guerra e pace” o dall’innegabile disomogeneità di “Resurrezione”. Russia, 1874. Anna Karenina ha quello che tutti i suoi contemporanei aspirerebbero ad avere. E’ la moglie di Karenin, ufficiale governativo di alto rango al quale ha dato un figlio. La sua posizione sociale a San Pietroburgo non potrebbe essere migliore: balli, corse, cene, soireé all’Opera e antiche ritualità a volte sopportabili e a volte no.
Attorno a lei, persone che passano la vita intera a fingere di essere ciò che non sono. Felici tutti nello stesso modo e infelici ognuno a modo suo. Anna si reca a Mosca su insistenza del fratello Oblonsky, per aiutarlo a salvare il matrimonio con Dolly. In viaggio, conosce la Contessa Vronsky e, alla stazione, suo figlio, affascinante ufficiale di cavalleria con il quale scoppia presto una passione che non può essere ignorata, e non lo sarà. Fino alle estreme conseguenze.
Come raccontare la natura fittizia di queste esistenze? Come mettere in scena la corrosione della Russia imperiale dal suo interno? Altri avrebbero infarcito il film di quel ciarlare salottiero che alla fine annoia. Altri sarebbero rimasti soffocati dal campionario di velette, pellicce, trine, carrozze, tappeti, candele, palchi e ventagli di cui si compongono – solitamente – le sontuose illustrazioni.
Il regista inglese, complice il commediografo Tom Stoppard alla sceneggiatura, decide per una soluzione discutibile finchè si vuole, ma precisa. Senza trucchi e senza inganni (ma con tanti trucchi e tanti inganni). Immaginare la rappresentazione in un unico luogo: un immenso teatro russo di fine Ottocento in rovina, che attraverso il passaggio di porte, o soluzioni registiche vorticosamente avvolgenti (senza essere troppo di maniera), spazia dai paesaggi innevati ai palazzi aristocratici, dai teatri d’opera alle stazioni letali. La quinta parete che separa il pubblico dalla scena e da questi “attori permanenti”, irrobustisce il gioco della rappresentazione ma anche le fratture tra realtà e finzione. La passione tra i due protagonisti porta Anna a una nuova gravidanza e al divorzio. Scandalo! “Una breve relazione con una donna sposata completa la formazione di un giovane, a patto che non diventi ossessione morbosa”. Somma riprovazione, somma ipocrisia. Figuriamoci quando attenta al santuario coniugale:“Siamo stati uniti da Dio, questo legame si può spezzare solo con un crimine contro Dio”.
La coppia diventa presto il sorvegliato speciale di un’arena nella quale meravigliosi involucri scenografici si sgranano uno dietro l’altro come bambole russe.
Molte le sequenze riuscite: il ballo forsennato della gelosia di Kitty dinanzi al feeling carnale di Anna e del suo giovane amante (un amplesso in pista), gli squarci onirici carichi di tensione, la patinata ma bellissima scena del picnic con le fronde agitate dal vento come fossimo in un film di Malick, l’emarginazione di Anna, ormai reietta, da parte dell’alta società di San Pietroburgo.
Peccato che la pellicola, nella seconda parte, ceda all’imbellettamento generale e alle nevrosi della prima attrice, diventando una trottola impazzita senza direzione, se non quella di un melodramma enfatizzato, vuoto e irritante. Capita, quando si sceglie di lasciare fuori dallo schermo la carne viva, reale, palpitante di un personaggio tra i più belli della letteratura mondiale. E peccato per il cast, indubbiamente infelice (ciascuno a modo suo, come Tolstoj comanda). Jude Law (l’alto ufficiale Karenin) perennemente depresso, artificioso e stempiatissimo. Aaron Johnson (il giovane conte Vronskji) fisicamente funzionale ma invisibile. Il vero disastro, però, lo combina Keira Knightley; non bastano gli occhioni sgranati e le sue celebri mossettine per centrare la forza e la personalità (pre)potente dell’infelice&infedele Anna Karenina. Forse un’attrice più matura, certo meno smorfiosa, che non caricasse all’inverosimile una parte già enfatica nella scrittura, avrebbe certamente giovato a un film in gran parte riuscito soprattutto perchè ha il pregio di non annoiare mai. Malgrado la durata fiume.