Salvatore Ronga | Ai Romani piaceva mangiare, e tanto. Ce lo dicono le fonti letterarie e le pitture di Pompei. Sulle pareti delle domus, vasi lussuosi traboccanti di frutta fresca, fondali con murene e aragoste, lepri e pernici. Il campionario dell’abbondanza alimentare era raffigurato con una tale vividezza che sembra contraddittorio parlare di “natura morta”, mutuando il nome dal genere pittorico coniato dagli storici dell’Arte per la tradizione seicentesca. Nei luoghi domestici dell’autorappresentazione sociale, l’atrio e il tablinio, dove il dominus riceveva i clientes, la profusione di “nature morte” veicolava una molteplicità di messaggi. Il dovere dell’ospitalità, gli “xenia” di cui parla Vitruvio nel suo trattato, ossia gli alimenti che il padrone di casa inviava ai suoi ospiti, l’esaltazione del patrimonio familiare e il richiamo allo sfarzo delle corti ellenistiche, orizzonte del massimo lusso vagheggiato dai patrizi romani.
Sul tema “Le nature morte di Pompei”, l’archeologa Silvana Costa ha tracciato un percorso agevole, illustrando lo sviluppo del soggetto pittorico e le ragioni della sua fortuna nella città campana distrutta dal Vesuvio nel 79 d. C. L’incontro, introdotto da Laura Novati, direttrice della kermesse “Il contastorie”, s’inserisce in un’area tematica dal titolo “La coppa di Nestore”, che vuole valorizzare le risorse archeologiche e storico – artistiche del Museo di Villa Arbusto e dell’Isola d’Ischia