Gianluca Castagna | Nell’ultimo gioco di specchi di Roman Polanski la macchina da presa avanza lungo un viale parigino bagnato dalla pioggia, poi svolta a destra ed entra in un teatro. Tomas cerca disperatamente la protagonista del nuovo spettacolo e non la trova. Tutte incapaci, sciacquette, cagne. Sta per andarsene disgustato quando entra Emanuelle Seigner, volgare e insistente, a reclamare il ruolo. Attacca il chewingum sotto la mobilia prima di scandire, con perfetta intonazione da Comédie-Française, le battute di Wanda von Dunajew. Miracolo. Lui l’ascolta, la guarda, si presta alla lettura del copione. Mathieu Amalric, che sembra Polanski trent’anni fa, è già in trappola. Lo siamo anche noi, risucchiati dalla spirale diabolica orchestrata dal regista di Chinatown.
In Venere in pelliccia abbiamo un romanzo di partenza e un testo teatrale che lo riscrive in chiave sado-maso. Un regista spocchioso che si ritrova a fare l’attore. Emmanuelle Seigner, moglie di Polanski, davanti a un sosia del marito. L’autobiografia inquina la finzione (e viceversa), mentre la diavolessa sistema le luci, tira fuori lo sciarpone di lana al posto della pelliccia e prende dominio della scena. Basta un coltello per trasformarsi da vittima in carnefice, un rossetto per rovesciare il maschile in femminile. Come afferma Socrate nel Fedro, l’amore di chi seduce è quello che il lupo porta all’agnello. I personaggi si scambiano i ruoli, mescolano trame e traiettorie, si moltiplicano tante volte per quanti sono i desideri inespressi o le paure celate. Si credono liberi, invece sono schiavi di pulsioni e repulsioni. Nella guerra (gioiosa) dei sessi tutto è oscillazione tra verità e finzione, piacere e dolore, sopraffazione e umiliazione. Del resto, per i libertini, l’arte della conquista ha più a che spartire con l’esercizio del potere che col sesso. E sulla scena – superfluo ribadirlo – può avvenire ogni cosa. Dallo spasso della farsa alla disperazione della tragedia. Oppure restare legati al cactus fallico, come avviene nel bellissimo finale.
Venere in pelliccia è un altro cul de sac di un autore vitale e irriverente malgrado gli 80 anni (il 18 agosto scorso). Forse non originale, ma girato e recitato benissimo, pieno di spirito e senza un attimo di noia. Il teatro è semibuio, i mattatori solo due. O forse no. Arrivano Afrodite, Dioniso, le Baccanti e le Valchirie. La mistress e lo schiavo, con tanto di collare sadomaso dalle punte di metallo e gli stivaloni neri di pelle da accarezzare con voluttà. Les italiennes non ameranno tanti fantasmi e verbosità, ma nemmeno a Cannes (dove il film è stato presentato in Concorso) sono arrivate le decorazioni ufficiali. Troppe (altre) storie hanno impedito di vedere, dietro l’alto esercizio di stile, l’ennesimo affondo di Polanski. Nella sua “Venere” è la cultura di massa che fa dell’eros – borghesemente – la maschera nuda sul vuoto dell’esistenza. Almeno fino al rovesciamento (un altro?) dell’ultimo clichè.