Gianluca Castagna | Si fa presto a dire “Ho chiuso col passato”. Soprattutto quando è il passato a non aver chiuso con te. Asghar Farhadi ce lo ricorda subito. Si invecchia non perché il tempo passi, ma perché il passato diventa sempre più pesante. Fino a schiacciarci.
Reduce dal successo internazionale di Una separazione (premiato con l’Oscar), il regista iraniano continua l’esplorazione dell’animo umano e delle scosse che lo percuotono. Lascia Teheran, irriducibile e moderna, e vola verso Parigi. A debita distanza dalle cartoline e vicino a una stazione di periferia, dove il treno è segno che il tempo passa e il ritmo dei ricordi può tornare, violento e improvviso, come nei nostri sogni.
La separazione è avvenuta. Ahmad torna in Francia solo per espletare una formalità: il divorzio dalla moglie Marie, una giovane farmacista che non vede da quattro anni. Basta una firma, per ricominciare daccapo. Ma il passato “è una terra straniera” da cui è difficile prendere congedo. I due ex amanti sembrano non aver dimenticato quel che li univa. I ricordi aleggiano nei loro pensieri anche quando non sono coraggiosi abbastanza da raccogliere i frammenti del loro amore perduto. Qualcosa li divide, come il grande vetro dell’aeroporto che impedisce loro di intendersi.
Marie ha due figlie nate da legami precedenti e il rapporto con la più grande, Lucie, è del tutto compromesso. Le ragazze riconoscono in Ahmad, pur assente da parecchio, il padre che le ha cresciute; al contrario, l’unico genitore rimasto sul campo – la madre – non sembra corrispondere al ruolo affettivo che le spetta, tendenzialmente per difetto, se non per incapacità di interazione. O forse, più semplicemente, perché la donna si è illusa di padroneggiare un ruolo che ha caparbiamente voluto e che gli si è logorato addosso.
Marie ha un altro uomo, il maghrebino Samir, che gestisce una lavanderia in centro. Il figlio di lui, il piccolo Fouad, vive con lei. Marie aspetta un figlio da Samir, che non è vedovo né separato: sua moglie è in ospedale, in coma dopo aver tentato il suicidio.
Su un terreno già così tellurico Farhadi costruisce un thriller dei sentimenti da mozzare il fiato. Dove ogni punto di vista è legittimo e mendace. Il passato è un film in cui prima o poi tutti mentono almeno una volta, in tutti i modi possibili. Per omertà, per convenienza, per necessità, per paura. A parlare sono i conflitti al centro della nostra vita, con epifanie di rabbie, umori, passioni, vendette e interrogativi. Perché Marie ospita Ahmad a casa sua invece di mandarlo in albergo? Come mai Lucie ce l’ha tanto con la madre? Cos’ha spinto la moglie di Samir a togliersi la vita?
Ogni risposta che sembra spiegare tutto viene contraddetta un attimo dopo. Cambiano i rapporti di forza, gli orizzonti morali, la virulenza delle metastasi (le macchie sul vestito, sulla porta, a terra) che aggrediscono l’integrità dei personaggi. Eppure ogni punto di vista, ogni colpo di scena, arricchisce il racconto di profondità e tensione. Ogni reversibilità delle soggettive incatena lo spettatore a una riflessione investigativa sulle tragiche contraddizioni e limitazioni della natura umana.
Il passato vanta una sceneggiatura magistrale (di grande precisione, pur al limite della plausibilità), dialoghi sempre serrati, un’eloquenza impressionante nelle interpretazioni (Berenice Bejò migliore attrice a Cannes), una perfetta costruzione dei personaggi e della loro evoluzione. Ahmad accetta il ruolo di mediatore nella famiglia scombinata di questa donna che lo ha amato e poi lasciato. Marie, scomoda e respingente, si rivela eroina scorticata dai sortilegi che germogliano da qualsiasi contratto d’amore (anche quello non scritto). Samir, da comprimario silenzioso, colonizza tutta la parte finale di questa commedia umana. Distribuisce colpe e responsabilità, forse perché l’unico disposto a venire a patti col passato. E’ lui il personaggio più sfaccettato, quello a cui Farhadi, con un colpo di coda geniale, affida la chiusura del film ma non della storia. Il volto intenso di Tahar Rahim, già formidabile protagonista nel Profeta di Jacques Audiard, ci conduce tra le corsie di un ospedale per conoscere la Grande Assente. Uno dei finali più belli, sospesi ed emozionanti visti al cinema negli ultimi anni.