Gianluca Castagna | Dell’ultimo film di Woody Allen pensavamo di dire l’esatto contrario. Sapere cosa attenderci e, in fondo, come prenderlo. Per una decina d’anni abbondanti, diciamo da “Provaci ancora Sam” a “Manhattan”, il genietto newyorkese ha ricamato infinite versioni di uno stesso personaggio. Le nevrosi di un cittadino allo sbando sublimate in uno spettacolo di massa. Magari strizzando l’occhio a Fellini e Bergman (i registi europei da lui amati), ma soprattutto cercando di raccapezzarsi in un mondo a cui gli sembrava (e gli sembra) impossibile stare dietro. E’ negli anni Ottanta, forse, che Woody Allen ha messo il turbo con un eclettismo formale a lungo respiro. Così il suo cinema, sempre puntuale e abbondante, ha oscillato tra drammi e commedie, film d’ambiente e squarci contemporanei, puri divertissement e dolorose riflessioni sull’arte e la vita.
Più controverso il ventennio successivo, quando la serialità ha prosciugato l’ispirazione e la difficoltà di trovare produttori in patria lo ha spinto tra le braccia delle Pro-Loco del Vecchio Continente. Londra, Barcellona, Parigi, Roma. Risultati alterni e un denominatore comune: la rassicurante staticità di uno storyteller di lusso che si porta addosso tutti i segni del tempo.
Con Blue Jasmine Allen torna in terra americana carico di merchandising d’alta griffe. E’ tutto quel che rimane alla povera Jasmine, ex madame newyorkese con magione su Park Avenue e marito squalo della finanza caduto in disgrazia. Nelle stanze degli dei, pensate un po’, si è infilata la crisi. Il consorte fedifrago è finito in galera, lei senza più un soldo. Non resta che riparare dalla sorella proletaria, a San Francisco, per curare ansia, incubi ed esaurimento nervoso. Forse ricominciare, tornando a studiare antropologia. Oppure occuparsi di interior design. Impossibile. I flashback sulla vita dorata a Manhattan riflettono la frattura e la confusione mentale di una donna che non accetta la fine dei privilegi. Come Blanche DuBois nel Tram di Tennessee Williams, la protagonista entra in rotta di collisione con la sorella e i suoi partner buzziconi. Xanax e lamenti blues fanno da contrappunto alla sua discesa dal piedistallo. In un vortice dove la logica e la ragione si dissolvono con estremo spasso e velocità, dove parlare da sola in pubblico è lo squillo d’allarme contro un ingranaggio disumano di cui è rotella sacrificabile.
E infatti Woody la sacrificherà.
Con abili incroci di tempo e d’azione, fulminei stacchi ravvicinati e un cast stellare a disposizione, Blue Jasmine si rivela, con somma soddisfazione dello spettatore, fatale combinazione di commedia buffonesca e dramma amarissimo. Non più distratto dai diari di viaggio turistici allestiti su scenari (talvolta) inconsistenti, Woody Allen scrive uno dei più intensi ritratti femminili del suo cinema. Cate Blanchett, gigantesca, intercetta ogni possibilità di manierismo, schivandole tutte con superbo mestiere e istinto. Oltre l’orlo di una crisi di nervi, umanissima e mostruosa, in bilico tra idealismo spinto e un rifiuto caparbio di accettare la realtà. L’attrice australiana, a questo punto probabile candidata all’Oscar, occupa tutto lo spazio disponibile sullo schermo, eppure è straordinario come le figure di contorno riescano a sopravvivere (anche quando sono morte). Ciascuna ritagliata con sardonica benevolenza, ciascuna colta nella sua posa perfetta.
Allen di nuovo in formissima. Ancora più bravo nel confessare di aver sempre amato il male di vivere, o di avere ancora voglia di mischiare le carte in un racconto che frulla pazzamente le bugie dell’arte con quelle della vita.