Gianluca Castagna | Guardare con i loro occhi. Sentire di cosa hanno bisogno prima degli altri. Prevedere. Sono solo alcuni dei segreti di un buon maggiordomo e Cecil Gaines farà bene ad impararli in fretta. Cresciuto da schiavo figlio di schiavi in una piantagione della Georgia, il ragazzetto di colore capisce subito come va il mondo. Sua madre viene stuprata periodicamente dal giovane padrone e chi osa fiatare si becca una pallottola in fronte. La babbiona dell’imberbe tiranno bianco (Vanessa Redgrave, tra i tanti cameo eccellenti) non si sogna nemmeno di far internare quel figlio degenere, ma prende in simpatia il piccolo orfanello di colore e gli regala un’opportunità: imparare un mestiere. Scappato dalle fogne sudiste, Cecil capirà che la strada per Washington e per la dimora presidenziale è lastricata di buoni consigli e amare verità. Trovarsi in una stanza e diventare invisibili è uno dei primi. I neri hanno sempre due facce: la seconda è quella da servire ai bianchi, fa parte delle seconde.
Morale della storia: si può servire gli altri senza essere servili. Ma a che prezzo?
The Butler – Un maggiordomo alla Casa Bianca prende spunto da un articolo di Will Hagood uscito sul Washington Post nel 2008 che riporta la vera storia del maggiordomo di colore Eugene Allen, al servizio di sette amministrazioni presidenziali tra il 1957 e il 1986. Il regista Lee Daniels (l’incandescente Precious, il malatissimo Paperboy) racconta la biografia del singolo e la intreccia con la storia di un paese, gli Stati Uniti d’America, che spesso chiude un occhio quando si tratta di vedere cos’hanno fatto al loro popolo. Anche in quei 30 anni decisivi per l’evoluzione e la conquista dei diritti civili per gli afroamericani.
L’espediente narrativo che fa esplodere il conflitto è il rapporto padre/ figlio. Un corto circuito di comunicazione che porterà alla fuga e al disinteresse, alla professionalità esemplare del primo e alla vita spericolata del secondo. La ferina tenerezza del padre mal si concilia con la rivolta incondizionata della progenie. Non senza errori per entrambi e qualche vittima sacrificale lasciata per strada (moglie alcolizzata, figlio minore immolato alla macelleria del Vietnam).
Gli americani, si sa, non sono bravissimi a tenere sotto controllo il Grande Affresco storico. Soprattutto quando riempiono il polpettone di musichette pompose e retorica low cost. Sullo schermo viaggiano parallele due vicende. Piatta e scolastica la prima, più tellurica la seconda. Sappiamo che Eisenhower dipinge acquerelli, Kennedy ha il mal di schiena, Nixon suda più del previsto e i Reagan sanno come fare propaganda (Jane Fonda, quasi una sosia dell’ineffabile Nancy, invita la coppia di colore a cena come mera tappezzeria).
Ma sappiamo anche che i giovani pionieri della rivolta razziale venivano addestrati dai compagni in prove di resistenza e sopportazione ai limiti del sadismo. Qui Daniels ritrova il graffio d’ordinanza e regala emozionanti sequenze d’antologia. Altrove regna il bignami da sussidiario di terza media, nel quale – al limite – ci si diverte a riconoscere le star: Mariah Carey schiava violentata e impazzita, l’ex (molto ex) sex symbol Lenny Kravitz maggiordomo anche lui, Liev Schrieiber è Lyndon Johnson seduto al gabinetto del suo lussuoso appartamento.
La questione razziale è un lungo percorso verso la libertà. La speranza di un futuro che davvero ci appartenga. Alla fine della strada, malconcio e invecchiato, Cecil è carico di gloria pubblica e sofferenza privata. Ritorna nel suo villaggio natio, nella culla del ricordo e dell’impossibile abbraccio materno. Riprende lentamente a intrecciare i fili del passato e del presente, della memoria e della storia, del desiderio e dell’azione. Forse è troppo tardi per abbandonare l’aria da vecchio cane bastonato, ma non per prendere le distanze dal fedele servitore che è stato per una vita intera. La guerra non è finita. Le barricate nemmeno. Ma all’incontro con Obama, il primo Presidente di colore, indosserà una cara reliquia: la cravatta di J.F. Kennedy.