Gianluca Castagna | Tutto il peggio e tutto il meglio che avete sentito o letto su Jordan Belfort è vero. Proprio come sull’America. The Wolf of Wall Street, il 25esimo film di Martin Scorsese, è una nuova, terrificante parabola sul potere e la gloria, la cupidigia e l’eccitazione, i soldi e il sesso. Non solo il ritratto ad alto tasso anfetaminico di un enfant prodige della finanza spericolata di Wall Street nei suoi anni di maggior fulgore (gli 80’s, c’era forse bisogno di dirlo?), ma lo spaccato di una società nella quale il denaro, le speculazioni e l’azzardo sono pretesti narrativi per far esplodere la violenza e mettere in scena tempi e ritmi di una vita spesa a folle corsa.
Leonardo Di Caprio è un giovane broker di belle speranze costretto a sopravvivere nella giungla degli affari. Gli va subito bene: il suo capo, un incredibile Matthew McConaughey, gli spiega in dieci minuti, davanti a un Martini, cos’è l’America e il capitalismo. Quando (ri)cade nella polvere, saprà come rialzarsi. Mentendo, imbrogliando, ficcando le azioni dritto nella gola dei clienti. Finchè non si strozzano. L’unica cosa che conta, nel mondo dei bravi ragazzi della finanza, è non dover fare la fila come gli altri, non tornare a casa in metro “con le palle sudate e lo stesso vestito da tre giorni” sapendo di aver sbagliato tutto.
I soldi sono meglio dell’adrenalina in vena. E infatti arrivano a gran velocità. Un flusso ininterrotto di denaro che assomiglia al flusso sanguigno: una circolazione senza fine, la linfa vitale per migliaia di prede in attesa di essere sbranate. Il delirio di onnipotenza del protagonista è senza limiti: Belfort/DiCaprio cambia moglie, cambia auto (una Ferrari bianca, “come quella di Don Johnson in Miami Vice”) e cambia vita. Senza limiti, senza freni, senza pause. Fra orge di fine impero (anche in aereo) e discorsi motivazionali da telepredicatori che infiammano la ciurma e regalano a Di Caprio tre monologhi da fuoriclasse della recitazione.
Presto, prestissimo, finisce risucchiato in un vortice di droghe e farmaci da sedare mezza Manhattan. Complice un socio ancora più scatenato di lui (è Jonah Hill, altra prova d’attore sensazionale) che sfiderà la morte durante una tempesta in alto mare perché Belfort, se proprio deve crepare, vuole crepare strafatto.
Naturalmente The Wolf of Wall Street sembra inventato apposta per scatenare i piagnistei dei moralisti drogati d’acqua calda ideologica: come si fa a prendere per buono il punto di vista di un criminale? In realtà la regia di Scorsese e lo script di Terence Winter si mantengono a una distanza di sicurezza controllatissima. Rappresentazione, non esaltazione del potere. Perché in fondo Belfort è solo il simbolo di un’epoca e di un modo di vivere, e c’è un po’ di Belfort in ognuno di noi, in ognuno dei suoi clienti/vittime (cosa volevano, se non diventare ricchi anche loro?) e perfino nel poliziotto dell’Fbi che lo incastrerà innescandone la rovinosa discesa (la breve ma eloquente sequenza notturna, quando fissa in silenzio l’umanità misera nel vagone della metro, mentre fuori c’è gente che spende lo stipendio di un mese in una cena).
Solo alla fine, nel villone delle illusioni perdute, nella dimora in cui si distinguono tutti i segni del lusso ma di cui si vedono solo i guasti della solitudine, solo allora avvertiamo la nera allegria del naufragio, la canzone triste dell’accumulazione e del tradimento, l’incapacità di condividere che sta alla base di certi rapporti d’amore e d’amicizia.
Visivamente il film è un vero tour de force di piacere. Lo spettatore è letteralmente inchiodato a un baccanale che dura tre ore ma poteva durarne anche dieci, tanto è il ritmo o la ricchezza di soluzioni. La macchina da presa si avvicina furibonda ai gesti di esaltazione, gira attorno ai protagonisti, li lascia guardare dritto dentro la lente, poi – all’improvviso – ferma l’immagine come a congelarli. Carrellate secche, inserti pubblicitari, una marea di “fuck” (nella versione originale). Braccio di Ferro e Gloria di Umberto Tozzi, candele infilate nelle chiappe e corteggiamenti a tardone british.
Martin Scorsese non solo fa un film cattivo, impietoso e irresistibile, ma dimostra ancora cosa vuol dire raccontare, parlare, far sentire e capire attraverso la fisicità delle immagini e dei suoni.
Un capolavoro folle, disperato e divertentissimo.