Barbara Pierini | Tra pochi giorni inizieranno a sbiadire le immagini dell’ennesima “tragedia umanitaria” e le parole ‘immigrazione’, ‘accoglienza’, ‘solidarietà’ torneranno nel cassetto delle buone intenzioni, a far compagnia alla dieta del lunedì, alla rinuncia ad un amore impossibile, alla telefonata a quell’ amico triste e chissà quante altre cose. Per questo vorrei che il ragionamento si spostasse dal cuore, organo ballerino, alla mente. Al di fuori di qualsiasi mito del buon selvaggio, chi arriva ha per noi almeno tre doni: lo sguardo, le parole e l’energia.
Lo sguardo.
Come sa qualsiasi donna che va a comprare un abito, potendo, ci si fa accompagnare da un amica che ha il compito di dire “come ci sta”; quello che vogliamo è uno sguardo esterno di qualcuno che ci veda nella totalità e ci dia un giudizio quanto più obiettivo possibile, se abbiamo scelto bene gli amici lo stesso accadrà in un qualsiasi momento critico della nostra vita.
Allora, chi ci può donare un’immagine di noi italiani quanto più pulita da condizionamenti se non chi italiano non è?
Chi arriva dall’esterno vedrà i nostri pregi ed i nostri difetti con occhi limpidi e se avremo voglia di crescere e non arroccarci in un delirio narcisistico-patriottico, ci donerà l’opportunità di farlo.
Le parole.
Come recita l’incipit di uno dei capitoli del più noto best-seller di tutti i tempi: in principio era il Verbo e Dio è il verbo. Sia che la si voglia vedere alla maniera cattolica che no, l’affermazione della Bibbia è esplicita: la parola è scintilla di umanità, è la parola- unita alla mano- che ci rende uomini, grazie ad essa possiamo ampliare i significati delle nostre emozioni. Quante più parole possediamo tanto più saremo in grado di espanderci.
E’ esperienza abbastanza comune quella della gioia di un cane al nostro ritorno, ma dubito che un cane possa essere: lieto, contento, allegro, felice, sereno, al settimo cielo, entusiasta, beato, esultante, e così via.
Per cui se insieme ad i migranti fossimo in grado di accogliere le loro parole, avremmo sfruttato una grandissima occasione.
Pensate che belle le nostre scuole se ogni mattina ci si salutasse in modo diverso, ognuno col suo significato, rinunciando per un giorno al “tuo schiavo” da cui deriva ciao, ed approdare ad un “te cuìdas”- abbi cura di te, o “as-salam alkyum”- la pace sia su di voi!
L’energia.
Il problema della crisi economica non è tanto nella portata dell’evento quanto nella nostra incapacità di reagire.
La mia generazione e quelle a seguire, non hanno patito la fame, né la guerra, né il dopo guerra, tutto ci è stato servito su un piatto d’argento: cibo, scuola, e persino lo svago ci è stato finanziato da mamma e papà, non siamo abituati a faticare per ottenere quello che ci serve, in buona sostanza: generazioni di rammolliti.
Ovviamente il discorso è generico, ma pensate quanto sono più temprate di noi le persone che arrivano da altri luoghi, pure nei casi in cui il viaggio è stato agevole, si sono dovuti adattare e trovare lavoro in un paese dove si parla un’altra lingua, ci sono altre abitudini e dove, spesso, si è trattati da intrusi. Siccome quel che non ammazza fa crescere, mi sa che siamo degli gnomi rispetto ad un qualsiasi migrante.
Per cui puntiamo ad un mondo in cui l’altro ,sia esso vicino o lontano, non sia visto come predatore di chissà quale ricchezza, ma, piuttosto, come portatore di chance, spunti, inciampi che ci possono aiutare.
Per questo auspico: accoglienza ad oltranza!