Gianluca Castagna | Dopo le delusioni dei polpettoni natalizi, American Hustle ha decisamente elettrizzato il grande schermo di Capodanno. Un film sull’inganno, sulle logiche e il funzionamento di un capitalismo d’assalto, feroce e corrotto, con il lusso iniziale di giocare a carte scoperte. Irving Rosenveld, navigato signore della truffa, è costretto a indossare una maschera per essere accettato. Come tutti.
I suoi capelli, ad esempio, sono il risultato di una laboriosa, quotidiana operazione di riporto, colla e tanta lacca. Siamo nel New Jersey, crepuscolo degli anni Settanta. Il protagonista estorce assegni da gente disperata, gli promette prestiti per conto di un’inesistente struttura finanziaria, tiene in piedi un traffico di opere d’arte, rubate o false, da piazzare presso facoltosi sprovveduti.
Quando incontra la rossa Sidney, from Albuquerque, l’alchimia è perfetta. Sopravvivere e reinventarsi, questa è la regola. Stare dalla parte di chi dà le fregature, non da chi le prende. Anche a costo di imbrogliare se stessi. E’ la strada da prendere quando si è senza un soldo, senza paura e senza niente da perdere.
I due fanno faville fino a quando non incrociano l’agente dell’Fbi Richie di Maso, poco propenso ad ammanettare la coppia truffaldina se, usandoli come esca, è possibile colpire gli uomini più potenti del paese collusi con la criminalità organizzata. Entusiasmo e ambizione vanno di pari passo con l’ingenuità. “E’ il mio sogno, non me lo puoi stroncare!”, dice al capo per ordire la sua trappola. Quanto più l’altezza è vertiginosa, però, tanto più facile è scottarsi e precipitare giù.
American Hustle potrebbe essere solo la storia di una deflagrazione. Una galleria di artisti del crimine e della menzogna stritolati dai loro stessi inganni. In realtà è molto di più. Un film che racconta il transito brutale dagli anni Settanta e loro utopie agonizzanti al radicale pragmatismo del decennio successivo. Strappa all’America l’ultima maschera post Vietnam e post Watergate per mettere in scena il vero volto della società reaganiana che verrà. Lavorando, più che sul rigore filologico di musiche, scenografie e costumi (peraltro irresistibili nella loro pacchianeria) sull’approccio dei personaggi alle cose della vita (si pensi, ad esempio, all’amicizia impossibile tra Rosenveld e il sindaco corrotto dal cuore d’oro) e soprattutto sull’estetica puramente cinematografica che è dispiegata lungo la narrazione. E’ lo sguardo del cinema, pur di maniera, a creare incontri tra i segmenti narrativi, a seguire quel filo preciso e geometrico che permetterà al destino di disegnare le sue traiettorie.
Il film moltiplica i punti di vista, le possibilità di identificazione e smarrimento. Non sappiamo mai se un personaggio sta mentendo o dicendo la verità. Se Sidney/Lady Edith è innamorata del suo mentore con la panza o del poliziotto coi bigodini. Se la moglie di Irvin, una formidabile Jennifer Lawrence, è solo una bambolona depressa, pericolosa e imprevedibile, o dietro l’aria da giovane matrona yankee c’è tutta l’astuzia di chi prende dalla vita quel che viene, ma poi sa come tirarci fuori il massimo.
E’ forse questo il segreto del cinema di David O. Russell (The Fighter, Il lato positivo). Farci restare invischiati in questi smarrimenti, in queste paludi. Per l’occasione, il regista ha contaminato questa travolgente commedia nera con dosi massicce di ironia. Messicani che si fingono arabi, poliziotti che ballano (e si vestono) come Tony Manero, coiti interrotti nei cessi delle discoteche e forni a microonde che esplodono. Perfino un cameo (strepitoso) di Robert De Niro che rimanda al cinema più sulfureo di Martin Scorsese.
Christian Bale, Bradley Cooper, Jeremy Renner, coadiuvati da Jennifer Lawrence e Amy Adams nelle cruciali parti femminili, sostengono i giorni della truffa con prove di recitazione assolutamente imparagonabili (scommettiamo sulle nomination?) Sia quando prende forma il rovello individuale dei caratteri, sia quando prevale il puzzle grottesco e il film si svincola dalla routine poliziesca per toccare le corde più profonde di una riflessione sulla natura umana e le sue contraddizioni. Live and let die. Perché l’arte di sopravvivere è un’avventura che non finisce mai.