Gianluca Castagna | Per segnare l’inizio del suo Novecento, Bernardo Bertolucci aveva individuato nella morte di Giuseppe Verdi la cesura storica tra l’Ottocento e il ventesimo secolo. Come se l’idea stessa del melodramma non potesse sopravvivere al nuovo tempo appena nato. E invece Baz Luhrmann, dopo il polpettone Australia, sceglie di installare sul capolavoro letterario di Francis Scott Fitzgerald Il grande Gatsby un canovaccio da autentico melodramma. Per raccontare non tanto una storia d’amore impossibile (alti e bassi, passioni e ostacoli, vita e morte, schemi di un copione che lo spettatore conosce a perfezione), quanto la parabola di una generazione vitalissima ma perduta, l’affresco di una società destinata allo schianto, la tragedia di un mondo nuovo, moderno e opulento, avviato verso la catastrofe. Un tributo, più che un adattamento. La tentazione folle di un regista che ama l’eccesso e sa allestire un party come nessuno.
Naturalmente Luhrmann lo fa a modo suo, nella maniera che conosciamo bene: esagitata, chiassosa, ultrapop e ultrakitsch. Dove il confine tra il buon gusto e il fuori luogo, l’eccessivo e il paradossale è quasi impercettibile. Del resto, questa storia di vite e destini negli anni Venti (“ruggenti” non a caso) deve essere sembrata al regista australiano un’occasione unica per mettere in scena tutta la voglia di vivere del fatidico decennio dopo l’astinenza imposta dal massacro della Grande Guerra e prima che la crisi del ’29 uccidesse definitivamente ogni illusione.
Jay Gatsby, dunque. Ma prima ancora Nick Carraway, testimone e narratore. L’aspirante scrittore a cui Tobey Maguire (il peggiore del cast) regala sguardi perennemente basiti. Come mai? Forse vede anche lui le parole che ci indirizza dal grande schermo, mentre la radicalità emotiva dei personaggi li (so)spinge verso la voragine (lui dallo strizzacervelli). Poi, ammettiamolo, ci sono ragioni anche più prosaiche per rimanere a bocca aperta: alle feste a cui viene invitato dal suo misterioso vicino di casa non manca nulla, soprattutto il marcio splendore del tempo. Orchestre scatenate, bagni in piscina, champagne a fiumi, stuoli di servitù, trionfi di cibi di ogni genere, costumi pazzeschi addosso a donne preferibilmente danzanti e sculettanti. Abbiamo gli occhi già acciaccati quando – dopo una mezzoretta di videoclip che mescola Jay Z con George Gershwin, Beyoncè con Lana Del Rey, l’hip hop con l’acid jazz – arriva lui, il grande Gatsby, con faccia, talento e mestiere di Leonardo Di Caprio. L’uomo che dal nulla ha costruito un impero di menzogne per amore di una sola donna che un tempo lo aveva rifiutato perché troppo povero. Daisy: frizzante, dolente e sommamente menefreghista. Come il bel faccino di Carey Mulligan quando non mette il broncio.
“Non si può ripetere il passato”, “Certo che si può”. E’ tutto qui il nocciolo incandescente del film. La finta allegria e la vera disperazione di un uomo che si confonde nell’alta società newyorkese illudendosi di dominarla e capirla, quando invece è incapace perfino di difendersi dall’unica ossessione che ha coltivato per una vita intera: riavvolgere il nastro del tempo e riconquistare l’amore perduto. Le tenta tutte: il siparietto con i fiori a casa Carraway in cui Gatsby stesso chiede “E’ forse troppo?” risulta imbarazzante tanto per il buon Nick che per gli spettatori, i quali urlerebbero volentieri “Sì, è davvero troppo”.
Nel secondo tempo esplode il melò. Daisy ha un marito ricchissimo e cafone che la cornifica con la moglie di un meccanico. Gatsby forza la mano, Daisy forza l’acceleratore, la tragedia multipla è in agguato esattamente come nelle pagine inespugnabili e indimenticabili del romanzo di Fitzgerald. Solo che sul grande schermo non vediamo sfumature, nè mezzi toni, né malinconia, né misteri, nè dandy spleen. D’accordo che la grande letteratura è fatta di altri ritmi e diverse profondità, ma a un certo punto è proprio la storia a sfuggirci tra le dita, divorata dal sense of wonder imposto al racconto dal regista australiano.
Una festa macabra, alla fine. Funerea. Mentre pensa al cinema come al più esaltante stupefacente in grado di eccitarti e stordirti con la sua ipertrofia audio-visiva, Baz Luhrman ufficializza l’ agonia in cui versa il cinema che ha fatto sognare le masse del Novecento. La macchina da presa scivola nelle stanze lussuose del villone di Gatsby come dentro a un museo delle cere. Si muove in un negozio pieno zeppo di giocattoli che solo l’abilità e il disegno folle del padrone fanno muovere come se fossero vivi. Da un party all’altro, da una canzone all’altra, da un ricordo all’altro. Serpeggia sotterranea in questo film malato che è vietato snobbare un’eco nostalgica, affettuosa, smisurata del tempo (e del cinema) che c’era una volta. Irraggiungibile, come tutte le cose perfette o presunte tali.
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