Gianluca Castagna | Nel 1961 nessuna comunità rappresentava meglio del Greenwich Village la libertà personale e artistica. E nessun palcoscenico, come il Village, era pronto ad accogliere la nuova ondata di musica folk, nata da una tradizione di dissenso e cresciuta con facilità sugli ingranaggi ben oliati dell’idealismo anticommerciale. Mentre il rock ‘n roll decadeva, o si lasciava corrompere, chiunque si trovasse qualche dollaro in tasca poteva aprire un ritrovo e, con una chitarra e qualche canzone, intrattenere il pubblico.
“Hang me, oh hang me, I’ll be dead and gone” canta Llewyn Davis, giovane musicista di talento e dal carattere impossibile, prima di essere pestato nel retro del Gaslight Cafè per ragioni che conosceremo solo alla fine. Ha perso il suo compagno di lavoro (si è gettato dal George Washington bridge) e adesso è come un letto sfatto sul quale sono ammassati libri, copertine di dischi mai venduti, bottiglie di whisky vuote, versi di poeti sconosciuti e corde di chitarra rotte.
L’ultima, struggente e bellissima odissea della ditta Coen prosegue sul divano di una dimora upper class, fortuito riparo di un folksinger che dorme dove capita, non riesce a guadagnare un soldo e ingravida qualunque fanciulla gli capita a tiro. Una sfortuna sfacciata, diremmo, ma della quale è in buona parte responsabile. Fa le cose peggiori con le migliori intenzioni, e solo quando canta entra in contatto con la sua natura più intima e nobile. E’ un dono che nessuno può portargli via, nemmeno lui stesso. I Coen sanno come trafiggere lo spettatore, come intercettare l’empatia del pubblico verso i loro strampalati protagonisti; per questo lo lasciano cantare ballate malinconiche dall’inizio alla fine, che solo chi ha un cuore di pietra o è nemico giurato del folk più giudicare tediose.
Al Bardo scappa il gatto dei suoi misericordiosi anfitrioni. Lo insegue per le strade, lo porta con se’ in metropolitana o nei microappartamenti dei compari di rabbia e d’avventura. Ulysse è il suo nome (come l’eroe omerico, o il romanzo di Joyce). Lo perde e lo ritrova, mentre noi pensiamo a tutto quel che nasconde, simbolicamente, un animale così misterioso. “Yeah, I—it’s the Gorfeins’ cat.”, confessa all’ascensorista.
Il peregrinare di Davis non ha niente di epico: il film è una dolente commedia musicale on the road, tutta filtrata in toni desaturati grazie alla bellissima fotografia di Bruno Delbonnel. Quasi uno stato d’animo, o un modo di vivere la vita. Strade innevate come sulla copertina di Freewheelin’, recording session per questioni alimentari, la ricerca di una nuova vita che non arriva mai. E poi l’incontro con persone indifferenti, ciniche, esilaranti. Dal jazzista eroinomane al suo autista teppistello, da impresari che si chiamano Pappi Corsicato (ebbene sì!) a segretarie jurassiche che colpiscono al buio con micidiali sentenze. L’inconfondibile tocco dei fratelli Coen si dispiega in un catalogo di schizzi e battute, ellissi e salti di tono, bizzarri quiproquo e humor nerissimo che avvelena l’immacolato spirito del tempo (la rivelazione del dottore, o cosa succede al padre quando Llewyn gli suona qualcosa). Lo zenith dell’amarezza nell’audizione a Chicago, dopo un rocambolesco viaggio nel gelo. “Sei bravo” gli dice l’impassibile Budda in contemplazione del suo futuro. “Ma qui non vedo soldi.”
Tratto molto liberamente dalla biografia di Dave Van Ronk, Inside Llewyn Davis è uno di quei film che ti entrano sottopelle con la loro malinconia impalpabile. I Coen si affacciano sul mondo degli artisti in cerca di fortuna, se ne ritraggono spaventati e poi si rimettono a guardarli. Senza preoccuparsi di dove vanno e dove arrivano. Basta andargli dietro. Omericamente. O cercando nelle canzoni (curate da Sua Maestà T Bone Burnett) quel po’ di consolazione quando la stanchezza finirà per prevalere, i calzini bagnati dalla neve non verranno asciugati (una scena devastante in un film pieno di scene devastanti) e questa storia, nella sua implacabile struttura circolare, ci riporterà al punto di partenza. Al momento in cui la tristezza che trasuda da ogni accordo della musica diventa un requiem disperato per i sogni e la carriera di un artista. Il felino, stavolta, non riuscirà a sgattaiolare fuori dalla porta. Llewyn Davis (interpretato da un Oscar Isaac immenso) tornerà – forse – a imbarcarsi per mare. Prima però bisogna (ri)salire su un palco del Village a cantare di spalle, in penombra e in mezzo al fumo, la sua ultima canzone. E pagare il prezzo della sua strafottenza al Dio, oscuro e vendicativo, del Vecchio Testamento. Proprio mentre sullo stesso palco esordisce un giovane di nome Zimmerman, coi suoi occhi da vipera e quel talento immenso che lo consacrerà, da lì a qualche anno, come il più grande cantautore del Novecento.