Gianluca Castagna | Piaccia o non piaccia, a Darren Aronofsky interessano le questioni supreme: il bene e il male, l’amore e l’odio, il perdono e la vendetta. Un tale progetto poetico, unito a una certa megalomania del personaggio, lo rende sommamente antipatico. E’ quindi assai difficile guardare con distacco la sua ultima, titanica impresa: “Noah”, storia di Noè e del diluvio universale. Tratta dall’Antico Testamento e riscritta dal regista newyorkese con ammirevole disprezzo del pericolo. Quasi un’opera fantasy, di grande impatto visivo, che finisce per disperdere tutta la sua potenza in un racconto lunghissimo, frammentario, incoerente e attraversato da un narcisismo spinto dal primo all’ultimo fotogramma. L’occasione, insomma, per gettare benzina sul suo stesso fuoco.
Il filmone inizia con l’assassinio di Lamech, padre di Noè, davanti agli occhi sconvolti del giovane e futuro patriarca. A macchiarsi del delitto è Tubal-Cain discendente dell’infame stirpe di Caino (nomen omen!). La Bibbia non ne parla, ma è necessario un personaggione che inneschi la spirale di violenza e vendetta. Ellissi (la prima di tante) e ritroviamo Noè adulto, con la faccia e la panza di Russell Crowe, sposato a Jennifer Connelly (incinta), già con due marmocchi a cui rendere la vita impossibile (“non toccare qua”, “non strappare il fiorellino”, “porta rispetto al nonno”).
Poiché all’epoca gli uomini campavano anche 900 anni, ritroviamo Anthony Hopkins che fa Matusalemme in una grotta truccato come il Gollum di Tolkien, mentre Tubal Cain e la sua armata delle tenebre scorrazzano periodicamente in scenari aridi e apocalittici. Niente di meglio per scatenare i sermoni di Noè: la natura è armonia, l’uomo è il male, il tempo della pietà è passato, ora comincia il vero castigo. E’ il Creatore che glielo suggerisce. Con incubi e visioni di un mondo sommerso dalle acque. Moglie e figli lo guardano straniti, poi si adeguano. L’acqua – ci ricorda il patriarca – pulisce. Separa l’immondo dal puro, il malvagio dall’innocente, ciò che affonda da ciò che si innalza. E così sia.
Gli angeli caduti, diventati Transformers di pietra per volere divino, costruiscono l’Arca. Un cassettone di design povero verso cui si dirigono in processione volatili, rettili e mammiferi. Non riusciamo a distinguerli mentre affollano la fortezza. Aronofsky li riprende da lontano, indistinti. Una volta a bordo li fa addormentare e buonanotte.
E’ tempo di combattere, la battaglia in stile “Signore degli anelli” ci attende. Il genere umano, imbarbarito e corrotto, vuole salvare la pelle, mentre una soggettiva in picchiata della prima goccia d’acqua che cade dal cielo e finisce sulla fronte di Noè, ci annuncia che il diluvio è vicino. Il Gladiatore direbbe: al mio via scatenate le acque!
L’Arca della Salvezza diventa l’Arca della Discordia. Non prima di un riassuntino in time lapse sulla creazione del mondo che scontenterà creazionisti e discepoli di Darwin, e farà rosicare Terrence Malick a cui ci son voluti almeno venti minuti per raccontare la stessa cosa in “Tree of life”. Dopo il bignamino, la ferale sentenza rivolta ai familiari: il mondo verrà lasciato solo, salvo e bellissimo. Vietato riprodursi. A questo punto, il film diventa un vertiginoso psicodramma familiare, nel quale esplodono antagonismi come nella più lugubre delle soap opera. Il complesso di Edipo e quello di Crono. In più, abbiamo un ospite a bordo. Carnivoro (orrore!), giustamente strafottente alle paranoie eco-sostenibili di Noè e assetato di vendetta.
“Noah” è un kolossal d’autore che paga tutte le libertà che si prende. Alterna sperimentazioni interessanti a sequenze parodistiche, una fotografia ispirata a musiche grevi e retoriche. Un immaginario fantastico che travalica il religioso, ma desolatamente privo di mistero e intensità. Come amava ripetere Marlene Dietrich, “la Bibbia è tra i copioni più belli mai scritti”. Ecco perchè il saccheggio non finisce qui. A dicembre arriverà nei cinema “Exodus”, sulla vita di Mosè, con Christian Bale nel ruolo del protagonista e la regia di Ridley Scott.