Gianluca Castagna | Assomiglia a tutti i migliori film di fantascienza ma non assomiglia a nessuno di essi. La forza di Gravity, hit d’apertura a Venezia 70, sta esattamente nella formula che tutti gli appassionati sanno cogliere in scioltezza prima di qualsiasi ragione. Il cinema americano conferma così di potersi aggiornare restando saldo sui suoi standard produttivi e affidando al talentuoso messicano Alfonso Cuaròn un racconto che certamente blandisce i cavalieri del cielo (campioni senza macchia e senza paura che, in nome dell’umanità e dei suoi sogni, solcano le vie del cosmo a bordo di astronavi) e al tempo stesso li rende protagonisti di un’avventura che è soprattutto filosofica e interiore.
Brivido e meraviglia dello spazio siderale. Dove non c’è vita, e non si sente niente. Eccetto due divi hollywoodiani (Sandra Bullock e George Clooney) che si fanno seguire col fiato in gola per qualità di recitazione e ritmo, sofferenza e humor, dialoghi (troppo?)rodati e slancio avventuroso. Cosa ci fanno nel silenzio più assoluto e rarefatto, a -100 gradi, così lontani dalla natura, bellissima e mortale, della Terra? Lei, ingegnere alla prima missione nello spazio, fugge per dimenticare (un terribile lutto familiare). Clooney è già più di lungo corso, ma nulla può contro le avversità del destino. Durante l’operazione di riparazione di un modulo che li ha portati all’esterno dello Shuttle, un’imprevista tempesta di detriti li colpisce violentemente, danneggiando la navicella e lasciandoli nello spazio libero come unici sopravvissuti della missione. Fluttuano via, verso l’ignoto, cercano una corda, un pezzo di lamiera, qualunque cosa li tenga aggrappati alla vita. Dentro i buchi neri della nostra esistenza, tra polvere, sabbia e fatali detriti, il cinema confeziona ossessioni terminali che sgretolano l’atto del guardare e il gesto del narrare. Visione in apnea, appannata dal rintocco dei respiri. Faccia a faccia con le fauci dell’universo pronte a inghiottirci. Ma che forza di immedesimazione, che coinvolgimento, che adrenalina! Collegati da un cavo, i due astronauti alla deriva cercheranno di raggiungere una stazione orbitante in un’odissea (possiamo scriverlo o rischiamo la blasfemia?) che diventa lotta incessante tra assenza e presenza di gravità, angoscia dell’isolamento e terrore dell’abbandono, voglia di (soprav)vivere e tentazione di morire.
Cuarón (I figli degli uomini, o il miglior Harry Potter di sempre) trasferisce nello spazio le difficoltà e le sfide che incontriamo nella vita. Su tutte quella della morte. Piani sequenza di grande eleganza (fantastico quello iniziale) al servizio di una regia prodigiosa che ci lascia senza fiato. Sospendiamo l’atavico odio per la Bullock e, già che ci siamo, non puntualizziamo gli errori della sceneggiatura come fossimo degli scienziati col trolley già pronto per Stoccolma. Gravity è un’esperienza tra le più tese e viscerali che si possano vivere oggi al cinema. Finalmente una tecnica meravigliosa per un filmone hollywoodiano con un cuore e un’anima.