Gianluca Castagna | Prima o poi toccherà spiegare come funziona la distribuzione e l’esercizio cinematografico in questo paese. Rivelarne le logiche e le motivazioni. Capire perché, a certi titoli più o meno disponibili (“Rush” di Ron Howard, “Via Castellana Bandiera” di Emma Dante, “The Bling Ring” di Sofia Coppola, “The Grandmaster” di Wong Kar-wai, “The Spirit of 45” di Ken Loach, “Sacro Gra” di Rosi, ultimo Leone d’oro a Venezia, ma vabbè chissenefrega del Leone), vengano preferite pellicole che col cinema hanno poco e niente a che fare. Incassano tanto (si dice). D’accordo, al botteghino comanda il fanciullo (nemmeno il fanciullino). Poi però non bisogna lamentarsi quando gli adulti, a Ischia come altrove, non vanno più a cinema. Per forza: dopo stagioni cinematografiche segnate da sequenze micidiali di titoli per adolescenti, gli spettatori over 30 finiscono pure per dimenticarsela, la strada che porta al cinema.
Il weekend isolano, oltre ai Puffi in seconda visione (come se una prima non bastasse), mette in cartellone l’ultimo capodopera di Federico Moccia: “Universitari”. Titolo che è già una dichiarazione d’intenti e – in quanto tale – con poche vie di scampo. Per le solite figurine sperdute in balia degli eventi (“la Moccia generation”), è tempo di riconoscere i propri talenti, completare il ciclo di studi e affrontare la società degli uomini. Ventenni interpretati da trentenni (ma perché?), intrappolati in un clima di instabilità vissuto come motore di debolezza e indecisione affettiva. Le ansie di sei giovanotti (tre maschi, tre femmine) dovrebbero somigliare tanto alle stesse tribolazioni vissute delle migliaia di fuori sede che vivono in città universitarie: la paura di come andrà l’esame, il timore di non riuscire a pagare la propria quota di affitto, le tragi-comiche disavventure della convivenza coi dissimili. Storie d’amore e d’amicizia che tutti hanno vissuto (e consumato).
Mentre la smania mediatica della realtà finisce per alterare e falsificare ciò a cui intende dare rappresentazione, la sorpresa può forse arrivare dal grande schermo? Macché. Moccia trasforma il materiale a disposizione nell’ennesima commedia romantica all’italiana in cui quel che conta è arrivare presto alle conclusioni. Felici, ovviamente. Tanto per la laurea c’è sempre tempo.
Forse una giovane borghesia consapevole di non poter più contare nemmeno sul fascino discreto della maturità a venire, riesce pure a identificarsi nei crucci esistenziali di chi se la fa col professore, o di chi trucca l’esito di un esame, o spende i soldi di papà per l’erba da fumare. Forse con una padrona/strozzina che ricicla una clinica come casa dello studente, viene anche voglia di svoltare tentando Il Grande Fratello o lasciarsi ammaliare dalla Grande Illusione della Settima Arte, ma resta un vero mistero capire come sia possibile che tanti (baby)spettatori italiani si ritrovino in dinamiche o soluzioni così elitarie e fantascientifiche e paradossali e lontane dalla realtà.
Davvero, per rientrare nella categoria dei gggiovani, bisogna fare o dire certe cose e non semplicemente esserlo?
Va ricordato, a sua discolpa, che Moccia non confeziona manifesti generazionali. Nemmeno ambisce a farlo. Lo diventano suo malgrado. Fa niente che la storia faccia acqua da tutte la parti, il taglio sia da fiction Mediaset (oggi un plusvalore), la recitazione un optional e, del comparto tecnico, il meglio – solitamente – arrivi dalla playlist musicale. Il piatto è servito, bruciacchiato più che cotto. Ma tanto i ristoranti sono pieni e i cinema pure. Così ci hanno sempre detto, così è.